Tema attualità sul concetto di confine Prima Prova 2020 svolto - Studentville

Tema attualità sul concetto di confine Prima Prova 2020 svolto

Prima prova 2016: ecco il tema d?attualità ? tipologia D - della maturità 2016 sul concetto di confine svolto dalla redazione di Studentville.

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La prima prova di maturità 2020 è in pieno svolgimento: se hai scelto di svolgere il tema d’attualità (Tipologia D) ti sarai trovato a dissertare sul concetto di confine, partendo da una citazione di Pietro Zanini. In particolare, la traccia riguarda: “confini, muri reticolati, costruzione e superamento dei confini, le guerre per i confini”. Noi di Studentville abbiamo svolto la traccia per aiutarti! Eccola di seguito.
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PRIMA PROVA 2016: IL TEMA D’ATTUALITÀ SUL CONCETTO DI CONFINE SVOLTO

Ecco il tema svolto della maturità 2016.
Che cos’è il confine? O forse sarebbe più giusto dire, che cos’è un confine? In questo periodo storico la nostra cultura in senso lato, quella del nostro Paese, dell’Europa, degli Stati Uniti e del mondo intero si è trovata difronte questo quesito che pone le proprie basi con la nascita stessa della nostra esistenza, quasi quotidianamente. Nonostante l’esperienza umana, la storia e tutte le definizioni più o meno plausibili che il dizionario riesce a dare a questa parola, ancora oggi l’uomo si interroga su questo concetto e soprattutto non riesce a trovare quel punto di contatto che possa trasformare questa parola in un qualcosa che abbia una accezione solo ed esclusivamente positiva e in qualche modo definire noi stessi senza ledere la libertà altrui. In senso “negativo”, il confine segna una linea di demarcazione, reale o immaginaria, oltre la quale non è possibile andare o spingersi senza avere il permesso di chi ha ricevuto o conquistato il territorio, reale o immaginario, che si estende dall’altra parte. In senso positivo invece esso può rappresentare il mezzo attraverso il quale conoscere se stessi e capire cosa rientra all’interno delle proprie abilità o sensibilità e cosa no. Il confine può spingerci oltre a cercare di raggiungere obiettivi oltre i quali fino a quel momento sembrava impossibile andare e può aiutarci ad imparare a rispettare l’altro sia da un punto di vista fisico (spesso e volentieri si dice che il nostro corpo rappresenta il confine del nostro IO o della nostra anima) che mentale. Purtroppo gli avvenimenti degli ultimi periodi ci stanno mostrando solo la parte negativa dell’idea di confine, andando a mostrarcela unicamente come una frontiera geopolitica, economica e culturale che alimenta i giochi di potere, l’incomprensione e l’odio andando così ad aumentare le tensioni sociali che la crisi economica del 2008 aveva iniziato ad inasprire di pari passo col proprio declino economico/finanziario. Così oggi accendiamo la televisione e vediamo un’Europa che sembra avere delle fondamenta sempre meno stabili, in cui in pochi beneficiano dei vantaggi economici, che di fatto questa unione sembra porsi come unico vero e proprio punto di contatto con gli i suoi “Stati Membri” (non a caso la sigla iniziale dell’Unione Europe era Unione Economica Europea), che prima hanno portato al collasso la Grecia e i suoi abitanti a valutare una possibile uscita dall’Euro attraverso un referendum ribattezzato Grexit ed oggi una super potenza come la Gran Bretagna apprestarsi a porre al proprio popolo la stessa domanda attraverso le votazioni che si terranno domani 24 giugno a cui i media hanno dato il nome di Brexit. Allo stesso tempo in Austria lo scorso 11 aprile il governo ha annunciato un piano per intensificare i controlli sul passaggio dei migranti al confine con l’Italia (rea di permettere con troppa facilità il passaggio di tanti clandestini attraverso le frontiere austriache) e la costruzione di una recinzione di circa duecentocinquanta metri lungo il passo del Brennero e di un centro per i controlli che non solo in tutto e per tutto fa correre la mente ad alcuni metodi utilizzati al confine tra Messico e California negli Stati Uniti d’America, ma di fatto segna una retromarcia incredibile sui patti di Schengen nati nel 1985 e che dal finire degli anni Novanta regolano l’apertura delle frontiere tra i paesi firmatari (tra i quali ovviamente Austria e Italia). Partendo proprio da quest’ultimo argomento, tra i vari autori e le varie opere che negli ultimi anni hanno affrontato il concetto di confine, frontiera e i problemi che questi concetti se interpretati unicamente con una accezione negativa possono causare, sicuramente il regista messicano Alejandro González Iñárritu è stato uno dei massimi esponenti. Il lungometraggio più importante e sentito della sua filmografia da questo punto di vista è senza alcun dubbio Babel del 2006 dove con un film corale in cui la lingua e la cultura si pongono come limite a tre storie che mettono a confronto (e loro malgrado a contrasto) quattro diversi Paesi: Stati Uniti, Messico, Marocco e Giappone e le loro difficoltà a comprendersi, rispettarsi e di conseguenza ad accettarsi, il due volte premio oscar ci mostra la società contemporane a trecentosessanta gradi.
La trama del film narra le vicende di un gruppo di personaggi che loro malgrado troveranno le proprie vite intrecciate e collegate. Un pastore marocchino affida un fucile da caccia ai suoi due figli per allontanare e uccidere gli sciacalli. I ragazzi, mentre pascolano le capre del padre, si sfidano a sparare con il fucile per vedere chi è dotato della mira migliore. Il più piccolo dei due, dotato di ottima mira spara un colpo in direzione di un pullman turistico che proprio in quel momento sta passando di lì e, senza volerlo, ferisce in modo grave una donna californiana. Inizia così il calvario della donna e di suo marito in viaggio in Africa per cercare di ricucire il proprio rapporto logorato dalla prematura scomparsa di uno dei loro figli. Nel frattempo la governante messicana, cui sono stati affidati i due figli dai genitori in viaggio, trasgredendo agli ordini ricevuti, decide di portarli con sé al suo paese, il Messico, per il matrimonio del figlio. Al ritorno, una volta giunti alla frontiera con gli Stati Uniti, il nipote della governante, forza il blocco delle autorità doganali e lascia sua zia e i due bimbi nel deserto, dove la polizia dopo lunghe ricerche li trova completamente disidratati. Intanto a Tokyo, una ragazza sordomuta si sente rifiutata dai suoi coetanei, e cerca di farsi amare provocandoli sessualmente. Tra questi c’è pure un tenente di polizia venuto a casa sua per cercare il padre, che tempo prima aveva regalato un fucile da caccia alla sua guida marocchina. Il finale, che lega tutte le storie, vede la famiglia statunitense e quella giapponese uscire dalla vicenda rinsaldando i vincoli familiari e con la prospettiva di una rinnovata speranza nel futuro; mentre per i rappresentanti delle culture meno occidentalizzate non può che esserci la tragedia ad attenderli: in Marocco, durante un conflitto a fuoco coi poliziotti venuti ad arrestare il padre, viene ucciso il figlio maggiore, mentre la tata messicana viene espulsa dagli Stati Uniti. Scritto, così come i precedenti Amores-perros e 21 grammi da Guillermo Arriaga, è un magnifico e dolente affresco di tre continenti, sulla solitudine e sui confini – geografici, culturali e psicologici – che la generano; sulla cognizione del dolore; sul destino dell’uomo e sui sentimenti che possono unire o dividere. Tre storie sparse per il mondo che hanno in comune, più che il tenue filo logico legato allo sparo di un fucile un sotterraneo malessere contemporaneo: già l’esplicativo titolo del film racconta infatti dell’incapacità di comunicazione che affligge la società tecnocratica dei nostri giorni, e che si tramuta nella sfasatura esistenziale del singolo individuo. Il dito del regista e del suo sceneggiatore non possono che puntare verso gli Stati Uniti, una Nazione o sarebbe meglio dire un Continente, che attraverso le proprie leggi e idee cerca di regolamentare l’andamento del resto del mondo ergendosi come unica depositaria della verità e della giustizia quando in realtà il confine umano (appunto) è molto più sottile e labile di quanto un recinto o un muro di mattoni possano credere. Le regole economiche e geopolitiche si scontrano con i confini dell’animo umano e una donna che fino a quel momento si era dimostrata compagna fedele e affidabile dei due coniugi americani, improvvisamente si trasforma in una messicana, una etnia straniera che ha messo in pericolo la stabilità della propria famiglia e va dunque allontanata, dimenticata, espulsa. Così come i due piccoli marocchini che vittime di un gioco stupido, si trovano a vedere le proprie vite completamente spezzate e/o trasformate in un incubo, per poter ristabilire l’equilibrio non naturale bensì artificiale delle cose. Un equilibrio in cui il più forte vince ed il debole è costretto a pagare. Il titolo non è che una metafora. La torre di Babele a cui fa riferimento il regista non c’entra nulla o quasi con la lingua, bensì con delle logiche politiche, geografiche ed economiche che sembrano essere diventate un processo naturale della comunità e che ineluttabilmente ci portano verso una separazione sempre maggiore e a dei confini sempre più vasti per alcuni e più ristretti per altri. Confini che limitano la libertà che si celano dietro la finta promessa di ampliarla a dismisura. Questo film è arrivato due anni prima della crisi economica e pur mostrandosi al pubblico come un’opera che parla di sentimenti, in verità parla della nostra contemporaneità in maniera quasi “profetica”. Il sogno di un’Europa unita che in realtà, per ora sembra solo essere, un’unione con scopi economici e recinzioni, muri e filo spinato che compaiono a voler rinsaldare un concetto effimero come quello di confine nazionale, quando l’unico vero confine da perseguire e da raggiungere è quello dell’animo umano. L’unica cosa che può insegnarci a rispettare il prossimo e l’unica cosa che può provare a donarci una libertà meno effimera.
Sul tema d’attualità consulta anche: Traccia Prima Prova Maturità 2020: tema d’attualità

 

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